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Alcide Cervi, la pastasciutta del 25 luglio

Il 25 luglio 1943 eravamo sui campi e non avevamo sentito la radio.
Vengono degli amici e ci dicono che il fascismo è caduto, che Mussolini è in galera. È festa per tutti. La notte canti e balli sull'aia. Dovevano cadere così. Sembrava chissà che, e sono caduti con uno scherzetto. Ma è perchè mentre loro parlavano di impero e costruivano propagande, il popolo faceva come Forbicino, e tagliava tagliava, finchè tutto il castello era posato sull'aria, e molti non se ne accorgevano, e dicevano: che bel castello. E invece era tutta finzione e vergogna.
Facciamo subito un gruppo di contadini e andiamo a Reggio, per la strada tutti si aggiungono e la colonna diventa un popolo. Ognuno sembrava che aveva vinto lui, e questa era la forza. Ci sentivamo tutti capi di governo.
Arriviamo sotto le carceri di San Tommaso e chiediamo la liberazione dei fratelli antifascisti. Si aprono le porte ed escono i patiti, i sofferenti, i testardi antiregime, i controcorrente, quelli insomma che avevano misurato col cervello dove andava veramente la corrente sotto l'increspata. Hanno barbe e occhi frizzanti, ci abbracciano e sono tuttossa, altri invece sono grassi e acquosi, andati a male nel buio. Ma il piacere è breve, perchè bisogna pensare alla situazione. È Aldo che ci ricorda la frase di Badoglio: «la guerra continua a fianco dei tedeschi». I rospi verdi infatti ci guardano da fermi e sembra che aspettino. Ma è pure Aldo che ci dice di far esplodere la contentezza, intanto si vedrà. E propone:
- Papà, offriamo una pastasciutta a tutto il paese.
- Bene - dico io - almeno la mangia.
E subito all'organizzazione. Prendiamo il formaggio dalla latteria, in conto del burro che Alcide Cervi si impegna a consegnare gratuitamente per un certo tempo quanto basta. La farina l'avevamo in casa, altri contadini l'hanno pure data, e sembrava che dicesse mangiami, ora che il fascismo e la tristizia erano andati a ramengo. Facciamo vari quintali di pastasciutta insieme alle altre famiglie. Le donne si mobilitano nelle case intorno alle caldaie, c'è un grande assaggiare la cottura, e il bollire suonava come una sinfonia. Ho sentito tanti discorsi sulla fine del fascismo ma la più bella parlata è stata quella della pastasciutta in bollore. Guardavo i miei ragazzi che saltavano e baciavano le putele, e dicevo: beati loro sono giovani e vivranno in democrazia, vedranno lo Stato del Popolo. Io sono vecchio e per me questa è l'ultima domenica.
Ma intanto la pastasciutta è cotta, e colmiamo i carri con i paioli. Per la strada i contadini salutano, tanti si accodano al carro, è il più bel funerale del fascismo. Un po' di pastasciutta si perde per la strada per via delle buche, e i ragazzoli se la incollano sotto il naso e sui capelli. Arriviamo a Campegine tra braccia di popolo e scarichiamo la trattoria. Uno dice: mettiamoli tutti in fila, per la razione.
Nando interviene:
- Perchè? Se uno passa due volte è segno che ha fame per due.
E allora pastasciutta allo sbrago, finchè va. Chi in piedi e chi seduto, il pranzo ha riempito la piazza grande, e tutti fanno onore alla pastasciutta celebrativa.
Ma si avvicinano i carabinieri, e vogliono disperdere l'assembramento.
Gelindo si fa avanti e dice:
- Maresciallo, rispondo io di tutta questa gente. Accomodatevi anche voi.
E i carabinieri si mettono a mangiare. Intanto i fascisti erano spariti come scarafaggi nei buchi. Altri fascistelli buttano le camice nere, uno invece se la vuole tenere . Dice che ha poche camice e quella gli fa comodo. Agostino ci si mette a discutere: se proprio ti serve, vedi a che punto ti ha ridotto il fascismo, se invece è una scusa, tienila lo stesso, perchè anche le tarme vogliono la loro festa. Il fascista rimane di gesso e butta la camicia. Ma qualcuno vuole dare una lezione ai fascisti. Andiamo a stanarli dai buchi, dicono, e punzecchiamoli un po' sulla pancia. Ma Aldo li blocca e dice:
- Perchè volete infierire? Dobbiamo convincerli dell'idea sbagliata, e domani saranno tutti con noi.
Ma il governo Badoglio non la pensava lo stesso. La guerra continuava , e prima di tutto contro il popolo. I tedeschi non dovevano capire, secondo Badoglio, che l'Italia cambiava alleati, ma i tedeschi avevano capito dove si andava e aspettavano per vedere se c'era da vendere cara la pelle oppure no. Quindi un buon governo avrebbe dovuto armare il popolo e cacciare via i tedeschi, che in quei giorni avevano un po' di paura e si ricordavano del Risorgimento. Invece proprio a Reggio il governo Badoglio si fece capire nemico del popolo, più che in tutte le altre zone d'Italia. Alle Reggiane io avevo un nipote, operaio, e il 25 luglio ci fu contentezza grande. Si fecero comizi improvvisati, manifestazioni, brindisi e allegria. Si andò alla ricerca di tutti i ritratti di Mussolini, dei fasci, delle scritte e lì a spaccare e a spicconare. Ma gli operai volevano uscire. Gli operai, più di altri sonnacchioni, avevano capito che il 25 luglio non bastava e che la guerra doveva finire con la cacciata dei tedeschi. Se il governo di Badoglio non s'appoggiava al popolo, finiva come il fascismo, e i tedeschi avrebbero governato loro.
- Usciamo in piazza, - gridavano gli operai, - manifestiamo per la pace.
I cancelli della fabbrica erano chiusi, davanti c'erano i soldati in stato di guerra.

-Evviva, evviva, evviva, - gridava un operaio che era salito sulla torre di un palo telegrafico sventolando un ritratto del Re. - Evviva la pace, - rispondevano gli operai e altri, - evviva il Re!
Arriva un'altra colonna dalle fonderie:
-Pace vogliamo la pace!
Il piazzale grande della fabbrica era pieno e azzurro di operai in tuta, con cartelli e bandiere tricolori e rosse. - Andiamo in piazza a gridare la pace, - urla un operaio. Gli rispondono le bandiere e gli operai che vanno verso il cancello, premono sulle sbarre, guardano i soldati e l'ufficialetto nervoso che prega: - Non uscite, non uscite!
- Fratelli soldati - grida un operaio, - ubbidite al vostro Re! Abbasso la guerra fascista! Viva l'Italia democratica, viva la pace!
E un altro alzando il tricolore:
- Soldati unitevi al popolo per cacciare i tedeschi! Viva l'Italia libera!
Gli operai gridavano e sporgevano le braccia fra i cancelli, i soldati cercavano di star fermi a pied'arm, ma si muovevano nervosi e l'ufficiale urlava: non uscite, carogne, o vi sparo in faccia.
Gli operai fanno una fiumana e vogliono che si rimangi la parola, ma quelli delle prime file tengono ancora l'urto e vogliono convincere i soldati.
- Non sparate sugli operai, vostri fratelli!
- Siete anche voi figli di mamma, non sparate!
- Unitevi a noi per la pace, non ce l'abbiamo con voi.
- Voltate i fucili contro i tedeschi, aiutateci a liberare l'Italia.
Un'operaia viene avanti a gomitate fra le prime file e grida:
- Soldati, soldati, fatelo per le vostre madri, per le vostre spose, basta con la guerra!
I soldati sentono la commozione e guardano l'ufficiale, si parlano fra loro, non stanno più in riga, e allora gli operai aprono i cancelli, e corrono verso di loro.
- Fermi - urla l'ufficiale tirando fuori la pistola. - Se fate un altro passo spariamo!
Gli operai si fermano in blocco davanti al plotone. C'è silenzio. All'ufficiale trema la pistola in mano. I soldati come tirassero su chili di piombo imbracciano i fucili per il puntat'arm, ma tremano anche loro aspettando che crolli il maledetto ufficiale. Gli operai allora riprendono a camminare piano piano, aspettano il momento giusto per spiccare il salto e abbracciare i soldati, impedendogli di sparare. All'ufficiale nemmeno ci badano, lui è uno solo, ha una pistola sola, e poi è troppo carogna.
- Io sparo, - fa l'ufficiale nevrastenico - io sparo, noi spariamo, attenti!
I soldati chi aveva il fucile verso il cielo, chi lo teneva a bracciarm. E gli operai, come una barriera, continuano ad avanzare piano, in silenzio.
- Arretrate di tre passi! - urla l'ufficiale ai soldati, e gli operai si fanno più spinti in avanti, è già un successo.
- Fuoco! - un rumore che spacca l'aria, fumo e rosso, gli operai si buttano a terra, scappano dietro gli alberi, mio nipote rimane acquattato con i compagni suoi, femi come lui sul selciato, e guarda senza alzare la testa i corpi vicini. Quello che gli volta le spalle sta sul fianco, ha sulla tempia un buco di sangue. Un altro amico suo, un operaio giovane, sta col viso verso il cielo e chiama fievole: mamma. Una donna addossata a un albero, vestita di nero, perdeva sangua dalla pancia e piangeva come una bambina. Altre due donne in portineria urlavano con le mani sulla faccia. Mio nipote alza un po' il capo, e vede altri corpi sanguinanti, il sangue scivola a terra, vien giù dalle chiazze e fa tanti rivoli. Gli altri operai dietro gli alberi gridano:
- Vigliacchi, assassini - e tirano sassi sul plotone, mentre l'ufficiale si china sui corpi per vedere.
Erano nove i morti, nove operai che volevano la pace. Era il 28 luglio 1943, la gente ancora festeggiava, ma quei morti fecero capire che gli italiani avrebbero dovuto conquistare la pace col sangue. Il crollo del fascismo non era ancora la fine di quei prepotenti e ladri che avevano voluto la guerra. Il massacro scosse tutto il popolo reggiano. Quando Aldo lo seppe dal nipote, disse: - Gli operai ci hanno insegnato la via giusta, bisogna chiedere la pace, anche se ci si lascia la pelle. Le Reggiane diventarono un centro di lotta contro la guerra. Se ne accorsero i tedeschi quando facevano riparare i loro Stukas, che non si riparavano mai, o quando sparivano casse di proiettili, o pezzi di mitraglia, che finivano in montagna per i partigiani.

Alcide Cervi, nato a Campegine (Reggio Emilia) nel 1875, morto nel 1970; contadino. Con Genoveffa Cocconi ebbe sette figli, tutti antifascisti e fucilati insieme dai fascisti il 28 dicembre 1943. Nel 1955 Alcide dettò a Renato Nicolai la storia della propria famiglia (I miei sette figli, Roma, Editori Riuniti)



Pagina scritta in HTML da Attilio Bongiorni - Settembre 2009
brano tratto da: La letteratura partigiani in Italia 1943-1945 - Editori Riuniti - Roma
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