«La mattina del 23 febbraio 1944 faceva freddo. Nevicava all'interno del carcere di
Monza.
I detenuti furono svegliati dal rumore di camion e di scarponi chiodati... era
arrivato un reparto della Wehrmacht. Urlando e gridando i secondini aprirono con
violenza le porte di alcune celle. Una dozzina di prigionieri furono tirati fuori con la
forza. Urla, spinte, strattoni. Li fecero uscire nel piazzale... Furono messi in fila, uno
accanto all'altro, con la faccia al muro e il cuore che batteva forte. Negli occhi
iniziava a comparire la paura.
I soldati si misero in formazione davanti a loro, impugnarono i fucili, li armarono.
Empidonio Chendi , operaio della Falck accusato di appartenere alla Resistenza, prese la mano di un giovane detenuto diciassettenne
che gli stava accanto, gliela strinse forte e gli sussurrò per infondergli coraggio: "non
aver paura, tanto dura poco".
I tedeschi spararono, una raffica secca, l'esplosione di
un attimo che durò un'eternità.
I colpi erano diretti in aria: era una finta fucilazione. Il
giovane ero io, Armando Cossutta... Empidonio Chendi, classe 1901, veniva
deportato in Germania, in un campo di concentramento dove sarebbe morto di stenti
nel giro di pochi mesi».
«È un signore gentile e cordiale, un medico mancato che per questo si duole, un
combattente che da ragazzo incontrò anni troppo veloci per il lusso dell'università. Li
incontrò a Sesto. Incontrò una vita che sessant'anni dopo gli ha fatto scrivere sul
risvolto di copertina di un libro-bilancio dell'intera esistenza: sulla mia lapide, per
favore, scriveteci: comunista».
Vedo Cossutta nella sua bella stanza della bella sede dell'Anpi a Roma:
«non ero più
parlamentare, non avevo più incarichi politici, allora son venuto qui e ho detto: posso
fare qualcosa per voi?.»