Medina, non aveva ancora vent'anni e già collaborava con la Resistenza di Piacenza.
Era una staffetta molto attiva, spesso viaggiava fino a Parma e Milano in bicicletta, portanto lettere e
ordini nascosti nel telaio.
Nell'agosto 1944 venne scoperta una cellula del movimento antifascista di Remo Polizzi e così caddero nelle mani dei fascisti diversi
documenti ed elenchi.
Medina seppe dunque di essere ricercata e scappò da una sua cara amica: Luisa Sacchi a San Nicolò. infatti alcuni agenti della
polizia fascista andarono a cercarla nel quartiere Cantarana (dove lei abitava). Non trovandola, portarono sua madre all'UPI per interrogarla,
ma, purtroppo, nel frattempo Medina era già stata arrestata. Il capitano che la interrogava dapprima con fare suadente cercò di
convincerla a parlare e a rivelare tutto quanto sapeva sui suoi compagni di lotta, ma poi vedendola determinata si apprestò a
torturarla. Medina li sentì dire «È robusta, resisterà» ed ebbe una paura folle di non poter sopportare
le torture e di tradire quindi i propri compagni.
Sui tavoli della questura vedeva le «sette lingue» una frusta di cuoio bagnata con
tanti nodi che serviva agli aguzzini a «persuadere» le vittime.
Ricevette il primo colpo dolorosissimo, e poi altri e altri ancora, ma era come se avesse ricevuto, insieme alla frustate, un'immunizzazione
al dolore come una «scossa elettrica» che l'aveva resa insensibile. La sua amica Luisa Scacchi che la vide la ricorda come
sfigurata, con un occhio che pareva volesse uscirle dall'orbita.
Medina non parlava.
Il capitano allora ordinò che le venisse fatta una puntura di penthotal (il siero della verità).
Pensò allora di fingere, rivelando di un falso appuntamento che doveva avere con un uomo della Resistenza sul facsal.
Gli aguzzini non le credettero, ma smisero di torturarla e la destinarono ad un campo di smistamento di Bolzano, per essere successivamente
deportata in Germania. Il viaggio fu atroce, in un carro bestiame, scarse la luce e l'aria, scarsissima l'acqua.
Quando il treno si ferma si legge da un cartello «Fürstemberg-Meklenburg» bisogna subito mettersi in fila e camminare, per chi
non lo fa sono bastonate. Da un lato della strada ci sono delle villette, qualcuno con ottimismo pensa di andare ad abitare lì ma si scopre presto che quelle sono le abitazioni degli addetti ai lavori, dall'altra parte della strada, ci sono invece grandi campi recintati con
filo spinato e delle baracche.
Tra quelle baracche si aggirano persone magrissime vestite a righe ed è lì che sono dirette le detenute si chiama « F.K.L. - Franen Konzentrazion Lager Ravensbrück» (Campo di concentramento femminile di Ravensbrück). Per le donne detenute iniziano attese di lunghe ore in piedi senza poter neanche parlare, perquisizioni durante le quali viene tolto tutto. Alcune vengono rasate a zero. Il dormitorio è fatto di nicchie nel muro nelle quali si dorme anche in tre. Continuamente vengono fatti degli appelli con
lunghe ore in piedi al sole o al gelo.
Ci sono due cose che terrorizzano le donne detenute una è il «revier»: un posto
appartato dove vengono portate alcune persone che faranno da cavie umane per esperimenti di vario genere (come farsi iniettare germi , farsi
mutilare di alcuni organi per vedere la reazione dell'organismo). L'altra cosa che terrorizza è il «trasporto nero» un
pullman lucido che trasporta le detenute nella camera a gas. Julka è un'amica di Medina ed è incinta, medina l'aiuta cercando
di farle avere una patata in più, quando la scoprono riceve 25 frustate, di Julka non si saprà più niente. Medina
verrà trasferita in altri due campi di concentramento, resiste ancora per un anno. Nell'aria c'erano già i segni dell'imminente
liberazione, le detenute vengono messe in fila e marciano per giorni, fino ad arrivare ad una città devastata dai bombardamenti, in fiamme.
Le donne cercano di scappare, tantissime verranno massacrate dai nazisti. Medina ed altre cinque compagne riescono a salvarsi e a raggiungere
le linee americane l'8 maggio, per loro la vita continua!