Primi di marzo 1945. Un mattino d'un
gelo azzurro, duro e limpido. Tutt'intorno le montagne ancora coperte
di neve.
Scendiamo di pattuglia sulla mulattiera che picchia su
Perino come un trampolino da sci. Cammino a fianco di Franco il
Milanese, slungagnone magro sul metro e novanta, slampanato, scuro di
pelle come un ascaro, fazzoletto rosso annotato sulla nuca, mitra
sten con quattro caricatori nella fascia di tela mimetizzata, pistola
Wesson-Smith a tamburo alla cintola, binocolo al collo, tapùm
tedesco con lente sulla tacca di mira.
È un'ora tranquilla, di quelle antiche
e serene con dentro voli di allodole. I nostri, su a Macerato, sono
ancora infilati nel caldo delle stalle. La mitragliatrice piazzata
sul vecchio torrione è avvolta nei teli che la difendono dal gelo.
Giù in paese i militi del presidio della Muti con i loro mortai se ne
stanno rintanati nei piani bassi e nel cortile interno del palazzone
di calcina gialla che fronteggia la costa. Oltrepassiamo la cascina
del Belvedere e ci fermiamo sul poggio che domina le case e la
piazza. Ci sporgiamo sul muretto e guardiamo giù. La grande piazza è
deserta, deserto anche lo stradone provinciale che supera il ponte
sul Perino e scompare oltre le case delle Due Bandiere. Il Franco
punta il binocolo sul palazzo giallo. Fa così tutte le volte che
capitiamo qui di pattuglia. Un'occhiata e via. Questa volta indugia a
lungo.
«Che c'è?» chiedo.Non mi risponde e mi passa il cannocchiale.
Le lenti mi ravvicinano il palazzo a fil di naso.
L'intonaco intorno alle finestre dell'ultimo piano è letteralmente
mangiato dalle raffiche della nostra mitraglia. Anche le persiane
verdi sempre chiuse sono ridotte a brandelli. Ora la finestra
d'angolo che dà sulla piazza è spalancata e nel vano c'è un tizio,
a torso nudo, intento a farsi la barba. Ha attaccato uno specchietto
alla maniglia di ferro e sta insaponandosi la faccia. Lo vedo lè che
se allungo una mano lo tocco. Mi sembra molto giovane, un ragazzotto
con una gran ciuffo di capelli scuri, magro, bianchissimo di pelle.
Ogni tanto guarda verso la montagna e agita le braccia con un largo
gesto incrociato.
«L'è un tipu alegher» dice il Franco «ci saluta, tanti saluti e baci dalle brigate nere».
Si sfila il tapùm dalle spalle e lo
sistema sul muretto con la canna incastrata tra due sassi. Si
rannicchia tutto sul fucile e controlla la mira. Si rialza, si
allontana di qualche passo, si stringe il cinturone alla vita,
ritorna a ridosso del muretto.
«Secondo te» mi chiede. Mi chino sul tapùm e guardo nella
piccola lente innestata sulla tacca. Le due linee nere s'incrociano
al centro e quello là c'è impigliato dentro come una mosca nella
zampe di un ragno.
Continua a insaponarsi la faccia e si vede che
muove le labbra e forse sta cantando qualcosa.
«È un ragazzo» dico «non avrà
più di sedici anni».
«L'è vera» fa il Milanese «ma
gli cresce già la barba».
«Un balilla» insisto «una
ragazzata».
Il Franco guarda in su, verso macerato.
I suoi capelli lunghi e lisci, nerissimi, brillano come antracite.
Continua a scrutare il bosco ancora tutto in ombra. Tra i quercioli
imbrinati nella vecchia neve, c'è quel silenzio già vivo e sottile
che precede il sopraggiungere delle raggiate di sole. A filo di
costa, in alto il torrione di sassi grigi è giĆ illuminato in
pieno. Sul terrazzo di vedetta spiccano i sacchi bianchi che coprono
la mitragliatrice.
«Fanno buona guardia» ci scherzo su
«dormono tutti come talpe».
«Meglio» fa il Franco «speriamo
che non si svegli quel pirla del Gino».
Il Gino dei Paggi è il nostro mitragliere giulivo che spara anche alla farfalle. Da dieci giorni
picchia come un dannato contro lo spigolo alto del palazzo giallo.
Mai prima delle dieci, però, perchè lui è uno di quei tipi dal
sonno aristocratico per i quali un'alba che si rispetti non spunta
mai al cantar del gallo.«Quello là» lo rassicuro «è ancora nel primo sonno».
Il Franco c'è su con quel tono un po'
sul ridere: «L'è vera, el ghà i so urari, un uriginal, un artista
della mitraglia, tutti gli artisti sono degli originali».
Si allunga a pancia piatta sul muro di sassi e si incolla con la guancia destra al calcio del tapùm. Se ne
sta lì immobile, concentrato, non respira neanche ma è d'un fare
assorto e lento, come in attesa di qualche invenzione o ispirazione
che deve crescere. Sfiora l'otturatore con la mano e appoggia
l'indice sul grilletto. La casa gialla è proprio a un tiro di
schioppo, giù, a nemmeno duecento metri in linea d'aria e quel
balordo della Muti è ancora alla finestra che si spennella la faccia,
magro soldatino di ventura, a petto nudo tutto costole, allegro come
un passero. Cristo d'un balilla - penso - adesso non ti salva più
neanche il padreterno e mi avvicino al Milanese e gli parlo adagio,
con un po' d'angoscia sbalordita nella voce.
«Franco, lo farai mica fuori così,
eh?, È come sparare a un fagiano in riserva, uno non può...»
«Non può cosa?» si stacca di
scatto dall'abbraccio del tapùm e mi guarda duro e rabbioso «non
può cosa? desmentegas de cheilà di Rio Farnese, del Barba,
del Gian Maria, del Ciancio, de tutt iater del colpo alla nuca e alè,
giù nella fossa, ater che fasàn in riserva».
«Roba da nazi, cristo, mica sei un nazi».
«Roba de guerra» taglia corto. Fa un gesto infastidito con braccio
sinistro e si riaccuccia sul tapùm. Me lo vedo lì tutto slungato
sulle schegge di beola del muretto con quello straccetto rosso da
Sandokan alla riscossa intorno alla fronte, le orecchie larghe d'un
rosa da fanciullo tenero, le mani magre e scure che sfiorano il
fucile. Boia d'un Milanese - penso - tanto non spari, lo so che non
spari, t'ho visto su nella casa del Gigg che giochi coi gatti sulle
ginocchia, che li gratti sulla testa e questo vuol dire che non
spari, che non ce l'hai il cuore di sparare epperò, cristo, vedo che
stringe il paramani di ferro e abbassa lentamente l'indice sul
grilletto.
«Ma non puoi ucciderlo così!» gli
grido addosso
ed è già tardi, parte un colpo, uno solo, secco,
fulmineo. Sento lo scatto del percussore e prima ancora che lo sparo
rimbombi tra le case vedo il ragazzino della Repubblica saltar via
dal davanzale della finestra con uno scarto violento.
Per un po' il Milanese non si muove, se
ne sta lì addosso al tapùm senza staccare l'occhio dal mirino, poi
si puntella con gomiti e ginocchia contro i sassi e si rialza. Mi
gironzola vicino e mi guarda in modo strano. Sono sconvolto e
rabbioso. Lui è compiaciuto e tranquillo, schifosamente tranquillo.
»Ehi!» mi fa «un culpèt alla
Bufalo Bill, guarda un po'».
«Ma va in malora» grido «l'hai
fucilato a sangue freddo».
Scrolla la testa e sorride, cordiale e
deluso.
«Toh!» dice porgendomi il binocolo «con questo ci vedi
meglio».
Inquadro la finestra spalancata, il
muro giallo pelato dalle raffiche, le persiane crivellate di colpi,
il vuoto che affonda oltre il davanzale.
«Non c'è niente da vedere» dico
seccamente.
«Guarda bene» insiste.
«Guardo bene cosa! Cosa? Cosa?».
«El specièt, pirla, lo specchietto
attaccato alla maniglia».
Guardo attentamente. Dalla maniglia
della finestra pende una sottile cornice di lamierina che trattiene
ancora alcune schegge scintillanti, le vedo bene nel brillio del sole
che ora batte contro la facciata del palazzo. È chiaro che la
pallottola ha sbriciolato in pieno lo specchietto passando a una
spanna dalla gola del soldatino della Muti.
«Così hai sparato allo
specchietto!». Mi prende un'emozione a tuffo di cuore, forte lieta,
bellissima e so che è la grande felicità di trovarmelo lì, il
Franco, faccia da pirata buono come il pane, lo spirlunga milanese
che liscia i gatti e non spara ai balilla e vorrei abbracciarlo e
fargli festa ma ci sono negato per queste cose e così gli restiuisco
il cannocchiale e sto a guardarlo in silenzio e vedo che un sorrisino
quieto e bello gli gira negli occhi.
«Cosa te screcevet!» ride «in cumbatiment l'è un cunt ma insì...» e aggiunge «però chellà,
quello là, l'è un bel pistola lo stesso, un po' del spavènt gli fa
da purga, te par?».
Si butta tapùm e mitra a tracolla e ci
incamminiamo su per la carraia. «Col tapùm è stato facile, una
bambinada» mi confida «l'è con questa qui che si capisce se uno
sa sparare sul serio» dà una manata sul calcio della Wesson-Smith
nera e grossa «con questa qui si vede se uno è un bullo, un vero
gioiello, sei colpi garantiti al limone, altro che la P38 de l'ostia,
ma fal al piasè».
Gli ha preso la voglia di parlare e
quand'è così lui tira fuori delle storie formidabili di gran
mangiate di bignè nel collegio dei preti di Milano dove è venuto su
da ragazzo, di suo padre macellaio di Rivergaro che atterrava i
vitelli con un pugno sulla fronte, di sfide sui baracconi con le
carabine spaccapalloncini ohi! Dieci su dieci con in premio un
cocorito e il vaso coi pesci rossi e allora è fantastico andare in
giro su per le montagne con lui che sgamba lungo e ti racconta storie
del genere ed è come sentirsi Sancho Panza che corre dietro a Don
Chisciotte e appena si calma un po' comincio a dir su qualcosa
anch'io e gli dico dei gatti che lui gratta sulla testa su nella
grande cucina del Gigg a Macerato e delle sue grandi orecchie rosa e
lui mi guarda un po' sballato e mi fa «ma che pirlate stai
dicendo?» e io dico «niente, roba psicologica».
Continuiamo ad andar su per il bosco e
il sole è già caldo e scotta sui giubbotti di lana grossa buttati
giù dagli americani. Improvvisamente una mitragliata lunga,
insistente, romba giù da Macerato. È la nostra Breda otto
millimetri. Non sono ancora le nove e il Gino c'è già messo al
lavoro, forse quella fucilata del Milanese lo ha svegliato mettendolo
di malumore. Giù nel palazzone la finestra d'angolo è sempre aperta
con quel vano scuro che buca l'intonaco giallo come un urlo di paura
ancora sospeso nell'aria.